GROTTA REMERON - LA STORIA
Esplorazioni
Se all’inizio del ventesimo secolo l’Italia proletaria, soprattutto contadina, si rese protagonista di un’ondata migratoria che spinse milioni di uomini, donne e bambini al di là degli oceani in cerca di fortuna, l’Italia piccolo borghese, sempre più protagonista della vita economica, civile e culturale del paese, andava acquisendo una propria specifica identità anche mutuando e declinando a sè gli usi e i costumi dall’alta borghesia e dalla nobiltà. Nell’ambito delle pratiche di loisir, al Grand Tour e ai soggiorni che i rampolli italiani (ed europei) svolgevano in Italia da secoli, si sostituirono le gite fuori porta e la villeggiatura: nuovi modi di viaggiare interpretati da nuovi attori, molto lontani dal turismo elitista di una generazione precedente. In alternativa alle più rinomate mete turistiche estive ed invernali il Touring iniziò a promuovere ed organizzare escursioni, anche giornaliere, verso città d’arte, laghi o montagne: tali mete venivano rigorosamente raggiunte in treno, bicicletta o a piedi.
L’esplorazione delle grotte di Remeron a Comerio, svolta da Luigi Vittorio Bertarelli nell’anno 1900, rientra pienamente in questa nuova dimensione odeporica della gita fuori porta, seppur con caratteri decisamente avventurosi. Un interessante articolo, apparso sulla «Rivista Mensile del Touring Club Italiano» nell’ottobre del 1900 e intitolato Una gita sotterra, racconta delle discese compiute nella grotta di Remeron da Luigi Vittorio Bertarelli insieme all’amico, compagno di viaggio e consocio del Touring Luigi Orrigoni, imprenditore milanese, fondatore della prima zincheria italiana e proprietario di una villa a Barasso. Ad accompagnarli due sacerdoti locali, Don Luigi Tadini, di Comerio e Don Giacomo Pensotti, di Barasso. Nell’articolo Bertarelli adotta uno stile tanto brillante quanto didascalico: la narrazione alterna momenti di suspence per l’oscuro e l’ignoto che i protagonisti vanno esplorando a descrizioni di carattere prettamente manualistico, focalizzate sull’attrezzatura impiegata e l’itinerario seguito. Lo scritto intende sia coinvolgere i lettori, evocando il fascino misterioso del mondo sotterraneo, che rivolgere un esplicito invito ai soci del Touring affinché raggiungano Comerio e possano praticare in prima persona la discesa nella Grotta del Remeron:
"A mezza costa del monte, tre quarti d’ora sopra Comerio, tra Varese e Gavirate, all’altezza di 685 metri circa, si apre nel bel mezzo un prato, con aspetto innocentissimo, una piccola buca, larga 50 centimetri in un senso e un metro e mezzo nell’altro. È questa la così detta Buca dei Remeron, che tutti i contadini conoscono, e dove nessuno è penetrato di più di qualche metro, perché non è affare comodo. Le solite leggende di serpenti, e di altri animali e fatti più o meno fantastici, non hanno impedito a Don Luigi Tadini di Comerio, a Don Giacomo Pensotti di Barasso, al mio indivisibile compagno d’escursioni Gigi Orrigoni e a me, di fare separatamente delle ricognizioni preliminari, le quali ci persuasero che un tentativo serio avrebbe potuto essere molto interessante. Andammo perciò tutt’insieme, all’assalto dell’ignoto, un mattino dell’agosto passato. Portavamo con noi un materiale ponderoso, contro cui protestavano le nostre spalle poco abituate: oltre le provvigioni da bocca, che, in fondo, sono la sorgente del coraggio, c’erano circa duecento metri di corde diverse, da quelle sottili che nelle discese facili dànno un affidamento morale e uno scarso aiuto materiale, a quelle robuste cui si può all’occorrenza abbandonare il corpo colla sicurezza che non si stacchi dall’anima. C’era pure l’attrezzatura di uno scalpellino, con dei ferri da infiggere, se fosse occorso, per attaccare le corde, e infine quasi un centinaio di metri di scale, in parte di Don Giacomo, in parte mie"
La discesa dei quattro esploratori riprende con un ritmo serrato. Alla narrazione delle manovre compiute è sovente alternata la descrizione puntuale del percorso seguito, oltre che delle deviazioni possibili:
"In questo punto la grotta si biforca. Un grande braccio risale per 40 metri in direzione di mezzogiorno, amplissimo, alto, di facile accesso. Il suolo è coperto di incrostazioni bizzarre, di sassi fissati da un velo di calcare depositatovi, sì che si inciampa duramente; qualche rara stalattite pende dalle pareti. La gran galleria si stringe in alto e finisce in un crepaccio, che poi si chiude. Ma l’altro braccio è una voragine, una fantastica spaccatura del monte che si apre in basso, contorta, rotta da grandiosi massi caduti a cavalcioni delle due pareti come ponti diruti, irti di denti formidabili di cui i bagliori del magnesio illuminano sinistramente le punte aguzze. Dove andrà? È possibile scendervi? Si direbbe di no. Le pietre vi cadono rimbalzando a gran distanza, senza rombo, perché come in generale in tutte le grotte, il suono va lontanissimo, ma non v’è affatto eco, troppo piccoli e irregolari essendo gli ambienti. Avanti dunque, verso l’ignoto! Attacchiamo una corda avvolgendola a un masso con un nodo d’anguilla. Questo nodo è il più semplice, pronto, facile a sciogliersi, tanto che non pare un nodo, è apprezzato dai miei amici in modo poco incoraggiante per l’autore, ma io dico di provare per credere e mi affido pel primo all’attacco ingiustamente sospettato. Il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge. La discesa non è davvero difficile, soltanto bisogna fare grande attenzione alle pietre, muoversi uno per volta, e soprattutto sgombrare bene dai sassi mobili i punti d’appoggio della corda. Presto siamo riuniti tutti a dodici metri di profondità, dove vi è un piano di riposo. Qui si tratta di lanciare la prima scala. I preparativi sono presto fatti. Un’altra sporgenza compiacente ci offre il suo appoggio, sgombriamo le pietre pericolose e cominciamo la discesa. Francamente, i primi momenti non sono gradevoli! La scala poggia sopra un mamellone sporgente; i piedi non possono perciò poggiare bene sui gradini perché incontrano subito il sasso; le mani anch’esse stentano a introdursi sotto i montanti perché la corda è tesa sulla roccia tondeggiante. Il momento è penoso. Tanto più che al primo pesarsi sulla scala le corde si allungano, s’allungano in modo inquietante. Vengono dei sospetti; è il nodo che si rallenta e riapre? Se avessi sbagliato? È la corda che si sfila? Quel cordino sottile premerebbe per disgrazia sopra qualche risalto di sasso tagliente, che ne recide ad uno ad uno i fili, cosicché quando il peso del corpo darà qualche strappo a un tratto cederà ed io andrò a capofitto nell’abisso? Ma andiamo, coraggio! La riflessione mi dice che tutte queste storie nere vengono in mente solo perché… ho paura. Paura io? Ma che? non è possibile. E me lo dimostro procedendo più franco. Maledetto sasso! se almeno la scala pendesse libera, si potrebbe mettere i piedi a posto. Ahimè! la scala anche troppo presto pende libera. Essa dondola spiacevolmente, il piede la trova con difficoltà… Auff! che bellezza, quando rimetto il piede in terra ferma e mando in su l’ordine - un po’ rauco: - pronti, avanti un altro!"
L’avventurosa discesa lungo il pozzo principale della grotta prosegue con una narrazione serrata, fino a quando, passate sei ore, i quattro esploratori vengono colti da stanchezza e fame, e decidono di risalire verso l’uscita. Otto giorni dopo l’esplorazione riprende, ma subito le condizioni appaiono mutate a causa delle forti piogge che hanno causato copiose infiltrazioni nel sottosuolo e reso più complicata e rischiosa la prosecuzione della discesa. L’appuntamento per un nuovo tentativo viene stabilito due settimane dopo, quando i quattro, agevolati dalle corde e dalle scale lasciate nelle visite precedenti, ripercorrono e proseguono la discesa. Lungo il tracciato già affrontato dagli esploratori la descrizione di Luigi Vittorio Bertarelli lascia spazio a qualche nota ironica: «La psicologia comparata sincera di quella nostra discesa sarebbe un documento interessante. Ma non sarò io a metterlo in pubblico, temerei di non farci bella figura di fronte ai miei compagni». Lo spirito cameratesco che caratterizza il gruppo si ritrova quando l’amico Luigi Orrigoni, ultimo fra i quattro, rimane per un’ora e mezzo abbarbicato ad un esile pianoro: «Gli è certo venuta la tentazione di ritirare le scale, ma seppe resistervi»
Luigi Vittorio Bertarelli
Nasce a MIlano il 21 giugno 1859, il padre è emigrato in America per motivi politici, emigra in Russia lavorando come tornitore, prima di ereditare a Milano una fabbrica di candele; compie il primo dei suoi innumerevoli viaggi a 13 anni, in compagnia del fratello Achille. Animato da spirito avventuroso e illuministico, dopo numerose escursioni e scalate in giovane età, trova nella bicicletta il mezzo di trasporto prediletto. Ed è proprio per diffondere l'uso delle due ruote che, nel 1894, insieme a Federico Johnson e altri 57 pionieri, fonda il Touring Club Ciclistico Italiano.
All'interno del sodalizio dà forma al genere guidistico, allora ancora sconosciuto, dirigendo la compilazione della Guida d'Italia del Touring Club Italiano, edita in 17 volumi a partire dal 1914, della Carta d'Italia del Touring Club Italiano in 58 fogli e dell'Atlante Internazione del Touring Club Italiano. Fu lui a lanciare tra gli iscritti del TCI la prima grande inchiesta sugli errori di toponomastica sulle carte italiane; grazie alle segnalazioni dei lettori ne emersero 17 mila. Un meccanismo partecipativo che precede di quasi un secolo le dinamiche dei moderni social network e delle community on line.
Si specializza inoltre anche come speleologo ed è autore, insieme ad Eugenio Boegan, del libro Duemila Grotte, quarant'anni di esplorazioni nella Venezia Giulia.
Nel 1919 viene eletto presidente del Touring Club Italiano, carica che terrà sino alla morte nel 1926